LA BUSTA AZZURRA - 1 PARTE

LA BUSTA AZZURRA - 1 PARTE

un racconto dalle Minors basato su una storia vera.
di Marco Perucca

Una busta di plastica azzurra, pesante, che spuntava dal finestrino di un’auto dal cui interno tre giovani si sbracciavano urlando richiamando l’attenzione.

Fortunatamente l’uomo che nella nebbia portava a spasso il suo cane per la Granda ci notò e si avvicinò, probabilmente considerandoci tanto ridicoli quanto innocui. Sul sedile posteriore di quella Seat rossa vecchia e scassata c’ero io, quasi invisibile. Alla guida un Paolo ancora senza barba e dal lato passeggero, con la busta in mano, Daniel magro come un chiodo.

«Scusi c’è una scuola qui intorno? ‘ché dobbiamo giocare.» Chiese Daniel all’uomo. Il signore che si riparava dall’umidità con un vecchio cappello consunto sottolineò la nostra sbadataggine facendoci notare che ci eravamo praticamente davanti. «Grazie.» Daniel tirò dentro la busta di plastica e rivolgendo a Paolo i suoi occhi a mezz’asta disse «e mo’ dove cazzo la buttiamo ‘sta busta?» Scoppiammo tutti e tre a ridere e parcheggiammo qualche metro più in là. Daniel poggiò la busta piena di vomito accanto a un albero e ci pisciò sopra, mentre Paolo si accendeva comodamente una sigaretta ed io, con la borsa a tracolla, fingevo di ignorare il telefono che vibrava ininterrottamente nella tasca.

Il nostro coach era un cazzone, ma non tollerava i ritardi. Dieci minuti erano dieci euro di multa, venti minuti erano venti euro e così via. Quella sera, prima ancora di giocare, i nostri compagni avevano già sessanta euro di birra da spartirsi per la cena.

«Ragazzino la prossima volta che non mi rispondi al telefono ti multo di cinque euro.» Mi rimproverò coach Ferenaz entrando nello spogliatoio. «Paolo cazzo hai bevuto ieri sera? Benzina? E tu? Sai di vomito Cristo!» Paolo trattenne a stento una risata mentre Daniel, già nudo, si infilò sotto la doccia fredda. «E dove cazzo è Scarlato?!» continuò il coach con gli occhi fuori dalle orbite.

Lo Scarlato in questione era il play titolare. Coda di cavallo anni ’80, naso dantesco, un metro e settantacinque di pura energia, in campo come in discoteca. Peccato però che quella sera la sua Peugeot modificata e dotata di irregolarissimi neon sotto scocca avesse fatto cilecca, anche se nessuno ancora lo sapeva.

Il riscaldamento pre-gara fu ai limiti della comicità: Paolo rideva in continuazione e corricchiava a caso per il campo, Daniel non prendeva neanche il ferro ed io non osavo più di qualche timido terzo tempo con appoggio al tabellone. Striano e Lollo mi si avvicinarono mentre il fischio dell’arbitro ci invitava ad avvicinarci alla panchina prima della palla a due. «Mi sa che oggi giochi tu ragazzino, Scarlato continua a non arrivare» disse Striano. Guardai Lollo timoroso e lui fece un segno di assenso, ma distolse subito lo sguardo al cielo pregando il dio che era solito bestemmiare.

Dovevamo salvarci e quella partita dovevamo vincerla a tutti i costi, per poi sperare di vincere anche l’ultima. Retrocedere avrebbe significato precipitare nella più bassa divisione regionale possibile oltre la quale rimanevano solo il bar e la Playstation. L’assenza di Scarlato non ci voleva e Lollo e Striano lo sapevano. Loro due erano i giocatori di maggiore esperienza, entrambi avevano poco meno di quarant’anni e giocavano sin da quando erano bambini seppure con fortune opposte. Striano era un presunto esperto di tattica con l’agilità e la tecnica di una tazzina, Lollo invece aveva sfiorato la serie A prima di sfasciarsi completamente una caviglia, da lì in poi il suo fisico non gli aveva più permesso di esercitare la propria arroganza se non in situazioni in cui la sua superiorità era manifesta anche su una gamba sola, tipo la nostra squadra.

Il nostro era un gruppo di appassionati non si sa bene se del gioco o dei diversivi alla routine, ma in ogni caso in tema di pallacanestro eravamo perfettamente coordinati: chi aveva i mezzi non aveva testa e chi aveva cervello non aveva tecnica. Paolo aveva talento e sfacciataggine, ma prendeva un tecnico a partita; Daniel era capace di fare 21 punti sette su sette da tre, ma non aveva intenzione di difendere; Rondano si iscriveva per sfuggire alla moglie anche se erano più le volte che usava l’allenamento come scusa per andare a bere con gli amici che quelle in cui si presentava davvero in palestra; Prato era un lungo che al secondo errore si chiudeva in spogliatoio a fumare; poi c’erano le due coppie d’oro: Berlot e Rino che erano i nani che passavano l’acqua e urlavano “brava e bella” e Mattia e Spagnuolo che erano quelli coi polsini ed i tutori perennemente infortunati. Infine c’ero io: ex capitano dell’under 17 promosso in prima squadra per penuria di uomini. Non ero neanche male anzi, ero considerato un prospetto, ma il rock&roll dei The Doors e le prime birrette in giro per locali insieme ai compagni di classe iniziavano ad avere il loro effetto amplificato dallo struggimento di un amore adolescenziale non corrisposto.

Coach Ferenaz indicò il quintetto: «Paolo, Prato, Lollo, Striano e Maugeri. Giochi tu finché non arriva Scarlato». Mentre stringevo la mano agli avversari al centro del campo guardavo costantemente la porta degli spogliatoi e Scarlato non arrivava. “Zarro di merda”. Il play che dovevo marcare avrà avuto trent’anni, pelato, pizzo, numero 4 davanti come me, occhi in fiamme e carisma da vendere. Io ero un diciottenne che si faceva le seghe piangendo e pensando ad Anna. Guardandomi intorno la palestra faceva schifo: il quadro svedese sul fondo del campo avversario quasi toccava il tabellone rigorosamente di legno, vecchio e ingiallito. «Occhio a non confonderci con le righe del campo da pallavolo» ci disse Striano pignolo come sempre.

Paolo si presentò alla palla a due ridendo e alitando alcol in faccia all’avversario mentre Striano schierato anche lui a sorpresa a causa delle condizioni di Daniel, trasudava la sicurezza di Jordan nelle Finals del ’97 e questo era un problema. Non feci in tempo a buttare un’occhiata in panchina a Daniel che sembrava dormire in un angolo che mi ritrovai con la palla in mano. Era insolitamente pesante. Il rumore dei miei palleggi rimbombava nella vecchia palestra. SBOING. SBOING. SBOING. Sotto canestro Paolo saltellava in post basso, Prato portava blocchi a caso su Lollo e su Striano, io passavo e tagliavo in mezzo chiamando palla con poca convinzione. Nessuno pareva aver voglia di tirare.

Il primo quarto finì con un avvilente 12-2 per la squadra di casa. I nostri avversarsi attaccavano confusamente ma con prepotenza, noi ci limitavamo a passarci la palla al limite dei 24 per poi sparacchiare un tiro a caso sul ferro.

Noi eravamo al balletto, gli altri erano in guerra.

Ci fu un minimo di reazione sul punteggio di 8-0, quando Striano per disgrazia infilò un improbabile tiro scoordinato dall’angolo che ebbe l’unico effetto di gasarlo ancora di più e quindi di convincerlo a prendere i successivi tre tiri che ovviamente sbagliò. Prima dell’inizio del secondo quarto Coach Ferenaz grazie alle sue straordinarie capacità comunicative ci disse «state facendo cagare». Diede uno sguardo in panchina e ficcò dentro Rondano al posto di Striano dicendo a quest’ultimo «vatti a lavare le mani che da lì ti esce solo merda».

La situazione sulle prime non cambiò. Rondano pareva che avesse dimenticato le regole del gioco e alternava infrazioni di passi in attacco a falli inutili in difesa. Sotto di quindici, a metà tempo Lollo ebbe una reazione d’orgoglio e infilò tre canestri con tre penetrazioni di rabbia, l’ultima con fallo subito. «Sì!» urlò, poi tirandomi un buffetto o forse più un pugno su una spalla, mi disse rabbioso: «svegliati ragazzino! Buttati dentro cazzo!». Ci provai, ma i risultati furono stoppate o errori. La palla pesava sempre di più e portarla lassù dove doveva andare mi pareva un’impresa titanica. Il mio uomo mi faceva impazzire in difesa e non mollava un cazzo quando attaccavo. Non avevo gambe, ma soprattutto non avevo testa e ogni volta che portavo palla in attacco guardavo la porta degli spogliatoi aspettando Scarlato che però non arrivava. «Zarro di merda».

L’ultimo time-out prima della fine del primo tempo Coach Ferenaz mi tirò fuori per farmi rifiatare, sconsolato per la mancanza di alternative. Stremato mi sedetti in panchina e notai che Paolo, ancora a secco di punti, non sorrideva più. A fianco a me su quella vecchia panca di legno sedeva Daniel, con le borse sotto gli occhi sempre a mezz’asta e la bocca piena di chewing gum. «Credici» mi disse «non è niente di che quel 4». Guardai a terra timido e timoroso. «Scarlato tanto non arriva più, fidati.» Continuò mentre Paolo infilava il suo primo canestro della partita proprio alla fine del quarto. Daniel mi tirò una pacca su una gamba e disse «vado a farmi un’altra doccia così mi ripiglio e gli ficco qualche bomba». Prima di andare negli spogliatoi mi avvicinai al tavolo dei referti e il vecchio segnapunti diceva 30-16 per chi giocava in casa.

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