LA BUSTA AZZURRA - ULTIMA PARTE

LA BUSTA AZZURRA - ULTIMA PARTE

un racconto dalle Minors basato su una storia vera.
di Marco Perucca


(LEGGI LA PRIMA PARTE)

(LEGGI LA SECONDA PARTE)

Passata la sbronza però tutto tornò alla normalità. Nonostante l’importanza dell’ultima partita in calendario e nonostante l’entusiasmo che ci aveva regalato quella vittoria, la settimana successiva non fummo mai più di otto agli allenamenti ed io tornai inevitabilmente a sentirmi il cambio di Scarlato che l’ultima e la più importante partita non la saltò. Rimasi stupito quando il Coach mi mise dentro dopo cinque minuti e lo fui ancora di più quando sin dal primo palleggio ritrovai la palla leggera e familiare al tatto proprio come l’avevo lasciata. Mi sentivo così sicuro che alla prima azione dopo un paio di passaggi mi buttai dentro in penetrazione segnando. Peccato però che feci appena in tempo a vedere la palla che si faceva accarezzare dalla retina che caddi a terra con tutto il peso del mio corpo sulla mia caviglia sinistra.

Berlot e Rino come sempre erano lì ed in fondo più, che essere dei giocatori della nostra squadra, erano i nostri primi tifosi. Rino giocava così poco che certe dinamiche del gioco e dello sport in generale non riusciva proprio a capirle. Addirittura una delle rare volte che per emergenza finì in campo per gli ultimi minuti di una partita, mentre stava per battere una rimessa da fondo campo, vide Scarlato a terra dimenarsi indicandosi la gamba tesa e urlando «tira! Tira!». Rino non capendo che si trattasse di un crampo gli tirò prontamente la palla in faccia ed a palla persa si avvicinò al compagno stordito chiedendogli perché gli avesse chiesto di tirargliela. Allo stesso modo vedendomi accanto a lui in panchina, frustrato e furente per il dolore e per l’occasione persa, cercò di consolarmi offrendomi una delle brioches che facevano nella panetteria di famiglia. Brioches che finì prontamente stritolata sotto il mio piede sano.

Perdemmo quella partita così malamente che neanche se fossi stato su due piedi e baciato da un talento divino saremmo riusciti a vincere. Retrocedemmo miseramente, ma dispiacque sul serio solamente a Lollo e Striano. Neanche a coach Ferenaz parve importare più di tanto e comunque la stagione successiva si trovò un’altra squadra in Promozione con cui andare in trasferta e dalla quale rosicchiare qualche euro di rimborso spese.

Noi invece ci ripresentammo tutti lì, nella stessa palestra, con i postumi di un’altra estate sregolata, ma pienamente convinti del fatto che saremmo risaliti quello stesso anno. A fine stagione anche il semplice fatto di averlo pensato parve una follia e fu tanto se non arrivammo in fondo alla classifica.

Fu la fine della nostra squadra anche se, per quel che mi riguarda, la mia stagione finì a novembre quando iniziai ad arrivare in ritardo agli allenamenti per finire di fumare in macchina l’ennesima sigaretta e ascoltare un po’ di rock triste pensando ad Anna. In quel momento capii che la mia carriera nella pallacanestro era finita e infatti quell’anno le mie presenze agli allenamenti andarono a dissolversi e finii per vedere per l’ultima volta i miei compagni di squadra in occasione di una cena in piola che mi parve più come una rimpatriata tra compagni delle medie che come un ritrovo di fine stagione. Finimmo anche quella serata completamente sbronzi e ci salutammo dandoci un arrivederci per settembre.

In realtà però non rividi e non sentii più nessuno per quindici anni, rividi per caso solamente Rino, qualche anno dopo mentre consegnava dei pacchi vestito da corriere, ma non andai a salutarlo.

Non scrissi e non sentii più nessuno, così come nessuno di loro mi cercò mai. L’impronta che avevo lasciato nelle loro vite era pari ai miei dieci minuti in campo senza infamia e senza lode. Dimenticai loro e la pallacanestro, semplicemente, e continuai a dedicarmi al rock e alle seratacce che dividevo anche con Patrizia, una sorta di surrogato di Anna alla quale finii inevitabilmente per affezionarmi proprio quando lei decise che era il caso di finirla. Consumavamo birre, superalcolici o quello che c’era a disposizione in Piazza Vittorio, quando ancora non era altro che un parcheggio polveroso con qualche raro locale ad illuminarlo. Poi col tempo Piazza Vittorio divenne il centro della cosiddetta movida ed io iniziai a dimenticarmi anche del fumo, di Anna, di Patrizia e a guadagnarmi una sorta di serenità che non saprei come definire se non nebbiosa. Una strana sensazione dal retrogusto mitteleuropeo di inizio ‘900 e che presuntuosamente assegno a tutti gli ultra trentenni che vivono questo inizio secolo. L’idea che vada tutto bene mentre nell'inconscio un qualcosa scava presagendo il disastro. Una sensazione che svanisce completamente nella leggerezza di una serata in casa tra amici. L’avvocato porta la birra, il commercialista dell’erba che pesca chissà dove, io gli hamburger e si va giù di bestemmie e risate sino a mattina.

Una sera che l’infermiere non era di turno finimmo da lui, dall’altra parte della città. Come sempre trasformammo la nebbia che oscurava la nostra serenità in profumato fumo d’erba e alle tre del mattino, in preda alla fame chimica, non resistetti alle lusinghe che l’infermiere continuava a riservare al paninaro che stava di lì a pochi passi. A vedere il camion non era nulla di diverso dal classico paninaro notturno parcheggiato su un piazzale di periferia. Puttane a pochi passi, musica tamarra di sottofondo, luci ovunque, due sedie di plastica piazzate davanti e dietro un generatore a brontolare. Odore di carne, cipolle e crauti sulla griglia che friggeva, mentre due zarri smandibolanti sorseggiavano Tennent’s. Alla griglia un tizio con un’aria vagamente familiare stava a guardare il cibo bruciare. «Charlie cazzo! Non vedi che brucia? Sei sbronzo?» disse un tizio in tuta che spuntò da dietro il camion con un sacco trasparente pieno di salsiccia. «Guarda che io sono Charles Bronson, non Charles Sbronzo» si difese biascicando il tizio alla griglia.

Effettivamente sembrava proprio Charles Bronson, dopo una cura di eroina. Il tizio col sacco salì dietro il bancone e posò pesantemente la salsiccia in un frigo poi fregandosi le mani si rivolse a noi con un «Ditemi ragazzi» decisamente rozzo. Era un uomo enorme. Alto, grasso, ma anche e soprattutto grosso. In testa aveva un vecchio cappellino dei Phoenix Suns di quelli della Starter che andavano in voga tra i ragazzini negli anni ’90. Una barba folta e lunga, cresciuta alla rinfusa, con qualche residuo di salsiccia o crauti appeso sotto il mento. Un paio di occhiali dalla montatura sottile, ma dalle lenti spesse sulle quali il riflesso della luce mostrava le ditate d’unto.
«Ci fai due salamelle con tutto da portar via, grazie» disse l’infermiere.
«Ci vuoi pure la cipolla?» Rispose quella sorta di Bud Spencer prestato alla ristorazione scacciando malamente il traballante Charlie dalla postazione della griglia.
«Si» risposi io continuando ad osservarlo.
Nell’attesa l’infermiere mi parlava, ma io non gli prestavo attenzione e osservavo quell’uomo girare e rigirare salsicce, peperoni, crauti e cipolle sulla griglia mentre battibeccava con Charlie. Lo riprendeva, lo insultava poi gli spiegava le sue ragioni, sempre gesticolando, come un coach che gestisce un suo giocatore.
«Sono sei euro» ci disse avvolgendo i due panini nella stagnola. «E queste» aggiunse «ve le offro io» mentre poggiava a fianco dei panini due Tennent’s gelate. Lo guardai stupito per un attimo poi guardandomi negli occhi mi disse ghignando
«Ma minchia ragazzino proprio non ti ricordi? Tieni pigliale te le metto nella busta azzurra».
Strabuzzai gli occhi «Cazzo! Paolo!»
E ci mettemmo entrambi a ridere.
«Oh infermiere questo non era male, se si impegnava magari ‘na C2 poteva pure farla. C’ha fatto vincere pure ‘na partita. Ragazzino quando vuoi passa in settimana che ci beviamo una birra. Ditemi ragazzi» e servì altri clienti.

Raccontai agli altri la scena della busta azzurra, e della partita, e di Ferenaz, e altri innumerevoli aneddoti di quel mio periodo cestistico. Poi tornato a casa, con la testa sul cuscino, continuai a pensare e ripensare agli allenamenti, agli scivolamenti, alle urla del coach, alle docce fredde, alle spine della panchina nel culo, alle trasferte, al tiro da quattro di Danilovic, all’Europeo del ’99, alla finale di Atlanta ’96 alle 3 del mattino con mio padre sulla poltrona a fianco che dorme, alle mie prime scarpe, ai tiri liberi che non entravano, al mio palleggio di sinistro, alla grinta, alla rabbia, all’adrenalina, alla soddisfazione per un buon allenamento, a una passione che in ogni modo aveva lottato per sopravvivere sino a soccombere colpevolmente sotto il peso del sopraggiungere della mia età adulta, come se le due cose quasi non potessero coesistere.

Qualche giorno dopo tornai al piazzale dove Paolo si sistemava a far panini. Non scesi subito dall'auto, rimasi qualche istante a guardarlo mentre trafficava sul furgone. Spostava buste e bottiglie da un frigo all'altro e sembrava completamente immerso nella sua attività. Mi faceva sorridere che quello che un tempo era stato un qualcosa di simile ad un amico avesse finito per interpretare la mitologica figura del "Porcaro". Era ancora presto, non c'erano clienti né per lui, né per le puttane che erano lì vicino, così Paolo stappò due Tennent's e si sedette con me sulle sedie a fianco al furgone. Non sapevamo che dirci.
«Charlie non c'è oggi?» Gli chiesi.
«In settimana basto da solo» rispose. Battemmo le bottiglie l’una contro l'altra, «Cin», poi tornammo a guardare il furgone illuminato come una boutique di alta moda.
«Sei ingrassato» mi disse.
«E tu hai una barba enorme» gli risposi.
«Perché non ti ricordi il mio cazzo» ribatté ridendo.
Risi anche io guardandolo per la prima volta negli occhi. Bevemmo non so quante birre e fumammo un'infinità di sigarette nonostante millantasse di aver smesso di fumare. Mi raccontò dell'Irlanda e di sua figlia Luna e io gli raccontai della montagna e della casa nuova, poi iniziarono ad arrivare i primi clienti e barcollando mi nascosi dietro il furgone per pisciare.

Gambe leggermente divaricate, uccello in mano, sguardo basso, iniziai a pisciare sull'asfalto, poi vidi poco più in là una busta azzurra in terra e presi la mira. Paolo si sporse dal furgone e io gli urlai ridendo «Alla Daniel!!». Paolo rise e poi con una smorfia malinconica disse: «a proposito, lo sapevi che Ferenaz è morto?». Rimasi a bocca aperta con ancora l'uccello gocciolante in mano. «Se n'è andato da eroe: sbattendosene il cazzo» aggiunse e poi tornò a lavorare. Io tirai su la bottega e rimasi qualche istante in silenzio a osservare i prati della periferia risucchiati nel buio di una grigia notte autunnale.

Nell'aria l'odore di salsiccia si mischiava a quello dolciastro dell'industria farmaceutica che da laggiù, ben oltre i prati, risplendeva fiabesca come il castello della principessa addormentata.

FINE.